domenica 7 dicembre 2008

e nel tramonto ti insegnano ad appoggiare cinque centesimi di dollaro sul binario di ferro.
sono tre figure più la tua, e si allontanano, ognuno sorride per i fatti suoi.
il cielo, lo pensi da un mese, è troppo grande. è troppo grande perché ci stanno tutti i tuoi occhi dentro, è troppo grande perché c'è troppa aria intorno. perché in questo modo la terra sembra piccola piccola, come dovrebbe essere.
e quando poi qualcuno indica l'orizzonte smosso da una macchia nera, inspiri a fondo l'ultimo ossigeno prima dell'apnea in cui passa il treno.
nel tramonto ti scorre davanti, ritmico, veloce.
ti spazza via i capelli chissà dove. ti rapisce gli occhi strappandoli ogni secondo verso sinistra, perché non dovrebbero cercare di inseguirlo.
e nel suo scuro scorrere rivedi tutto. rivedi l'erba verde tra le case finte del kentucky, rivedi le travi di legno laccate di blu e scrostate a baton rouge, rivedi l'enorme campo di zucche a starlight, rivedi famiglie allargate nei loro componenti e nel punto vita, rivedi i neri vendere copertoni nella periferia di new orleans, rivedi le tombe pretenziose degli eroi della patria, senti nelle orecchie le storie portate da tutti gli accenti possibili che stuprano irreparabilmente i tuoi suoni preferiti.
e rivedi ponti lunghissimi, fiumi enormi, le dolci anse del missisippi quiete solo in apparenza, le paludi così verdi da colorarti la retina. rivedi collezioni infinite di cappelli da cowboy, rivedi i sogni del new mexico, rivedi i tetti regolari e le vie perfette di birmingham, il fumo nei locali pubblici, le macchine dello sceriffo, il tuo stomaco con la parete interna rivestita di olio e burro, le negre che ballano scuotendo il culo tondo, mille città con lo stesso nome e il tuo senso di non appartenere a nessuna delle florence sparse per gli stati.
e se il treno non è ancora passato, ti puoi sentire rapire dall'immensità di las vegas. ti puoi sentire morire per non saper mangiare, in un boccone solo, il grand canyon, la death valley. ti puoi sentire schiaffeggiare dall'assenza di marciapiedi in una città così grande che vuole o schiacciarti o venderti un mini truck. ti puoi sentire spettinata da tutti i fiati di una brass band della louisiana.
ma prima o poi il treno passa, svanisce via.
il cielo torna ad essere troppo grande e potente, e ti viene in mente che la gente lì è così religiosa perché si sente ancora timorosa di alzare lo sguardo.
e quando ti mettono i tuoi cinque cents in mano, schiacciati così tanto da sembrare una lente di john lennon, sono ancora caldi dell'energia che non si è persa dalla ruota al ferro.
è questo tipo di conservazione, quella in cui speri. un'istinto tipico dell'uomo di non voler svanire nel tempo ma di lasciare una reazione nel paesaggio che ha attraversato.
che se tu non puoi portare quel mondo con te, speri che quel mondo ti porti con sé.
allora strappi qualche filo d'erba, contro ogni tuo moralismo, e baci il vento come legolas, e ti riempi di tramonto rosa, che poi non ce ne sono più.
ma se piangi è solo per malinconia, non per tristezza. per quell'ultimo ricordo che ti è salito tardi alla mente, dopo il treno, a tradimento. perché ora si intona con tutto, effettivamente.
e ci sono di nuovo i grattacieli di chicago che si specchiano sul lago michigan, il cielo blu e grigio, le lacrime che ti bagnano il naso appiccicato al finestrino ed una sola voce che ti ripete, eccitata, scodinzolante, con la tua voce:
"sono in america sono in america sono in america"





freedom is just another word for nothing left to lose.




domenica 14 settembre 2008

Io invece amo molto la pioggia.
Mi piace quando tutto ad un tratto l'estate decide di abbandonare il campo e il cielo si apre lanciando tutta l'acqua conservata fino a quel momento, proprio per quel momento, giù di sotto. Proprio a secchiate, tipo quelle da lanciare agli americani quando vengono a scassarti la minchia sotto la finestra di casa. Tu poi manco stai dormendo, sarai lì che bevi, cazzeggi, però perché mai sprecare un'occasione di dimostrare inospitalità? E quindi secchiate, appunto. Ecco quando ti arriva una secchiata in testa o sei americano sotto la mia finestra o sei sotto un temporale di fine estate. In ogni caso, non essendo mai stata americana, posso solo parlare della sensazione che provo nel secondo caso.

Questi temporali sono veloci, pesanti, durano quanto una scopata e ti lasciano la stessa sensazione di beatitudine. Bagnata e contenta, per parafrasare.

E' l'autunno che ti dice aspettami, sto arrivando il dodici ottobre.

E ogni anno ho visto giorni e notti così, lucide di pioggia, profumate di strada. Ogni anno sono uguali, eppure qualcosa c'è di diverso. E dopo averci pensato un attimo, so che sono solo i miei occhi che cambiano.

Sono io che, in un costante divenire, acquisisco nuove capacità e ne perdo di vecchie. A volte non me ne accorgo nemmeno, altre, come in questo caso, mi lasciano senza parole. Senza parole perché oggi so di non sapere più scrivere.

I segreti che custodisco ora sono inabissati in me, chiusi dentro tessuti del corpo troppo feriti per non essere serrati. Crescendo inconsciamente forse si fa una distinzione tra le cose che si possono dire e quello che non si possono dire, e quel subbuglio di mezze frasi che era prima la mia omertà, il mio nemico e la mia consolazione, non ha più una funzione. C'è solo banalità o silenzio.

Fino alla prossima crescita sceglierò ragionevolmente il silenzio.

E poi il dodici ottobre arriva.
L'autunno mi risveglia sempre da ogni letargo.




 

giovedì 4 settembre 2008

facile e difficile sono concetti così relativi.

è stato tutto troppo facile. è stato tutto incredibilmente difficile.

dico di odiare l'indifferenza, e poi sono così veloce a farla mia, a non avere altro addosso che quella.
è sempre la stessa storia. la cosa che fa più male, la cosa più difficile da accettare, e lasciare che il cuore smetta di battere. è prendere il polipo congelato e dire, guardando lui nei larghi occhi chiari, < sono un essere di luce. >
è prendere la canna da pesca e aspettare che abbocchi una trota salmonata, guardare il suo sorriso da lupo e dire < sono un essere di luce. >
è scendere le scale lentamente, una per una, fino al reparto scarpe. attraversare tutto a mento basso fino a vedere la sedia e la scrivania, qualcuno che ti aspetta. alzare gli occhi e guardare i suoi, nemici, e pensare < sono un essere di luce. >
è lasciarsi inondare dalla luce bianca postmortem dell'areoporto dopo aver guardato i suoi occhi colore del cielo. fermarsi due secondi, deglutire te stessa intera e posare sulle labbra serrate dai denti la frase < sono un essere di luce. >
è quando lo stomaco cerca di scappare e rifarsi una vita altrove. è quando dio quanto sarebbe bello piangere ancora, ancora una volta, ancora senza riuscirti a fermare fino a quando non ti addormenti, ancora fino ad annullarsi. e non farlo.
e decidere che è abbastanza.
< sono un essere di luce. > e il gioco è finito.

tutto troppo facile quando una volta era incredibilmente difficile.

e mi dispiace lasciare sminuire dalla mia forza tutto il dolore che sei stato. ho ancora dietro gli occhi, te lo giuro, la stessa tristezza. la conservo per cercare di ricordare, almeno in parte, quanto ti ho desiderato. ho il cuore calmo come un pendolo, conta il tempo, aspetta.



e ora finalmente sola torno ad abitare la notte con sotto il braccio il vangelo sencondo ace ventura.
non cercatemi, non ci sono.

sto così bene, quando non ci sono.






suggerimenti per il fade to black: kevin welch _ something about you











[ la cosa più meschina è stata non usare le adeguate segnalazioni per i punti di non ritorno.
ma tu eri il mio eroe. tu forse puoi ancora tutto.
una delorian. ottantotto miglia orarie. e di nuovo indietro nel tempo. ]





martedì 12 agosto 2008

E' difficile tornare a comunicare quando è da tempo che preferisci serbare quei tesori chiamati idee tutti per te. E non saprei dire se ho sviluppato un istinto improvviso di condivisione o se è solo il senso di perdita che mi guida, ma credo che per riprendere a guidare si debba prima accendere il motore, per quanto complicato sia trovare la chiave giusta in quel mazzo così grosso e pesante che sono i propri metodi analitici. Poi forse si parte.
Confido nell'idea di qualche sorriso delle presenze tanto vicine quanto lontane, felici di sapere che sono più che viva, più che attiva, solo più silenziosa. Sempre più silenziosa. Ed è per loro che ci sto provando.

Ho passato un pomeriggio nella politica del mio paese. Ci sono ancora cose che mi lasciano a bocca aperta, ci sono ancora cose che mi chiedo come si possano cominciare ad affrontare, ci sono ancora assenteisti e qualunquisti, persone con pensieri labili o artefatti, ci sono ancora turbini e mulinelli incostanti di opinioni che confondono la mia, ci sono ancora verità lontanissime dall'essere assolute. Io che mi sento salva leggendo un libro solo perché mi sembra di aver scoperto chissà che tesoro segreto, salvato dalle potenze mediatiche e dalle cesoie censuratrici, scrollo la testa e riprendendo la mia cara sfiducia non appena osservo le cifre, i dati, le statistiche. La salvezza dei numeri è l'unica vaga, per quanto dubitabile, certezza che possiamo avere, a volte, quando ci perdiamo a fantasticare su come vadano davvero le cose all'interno delle tremule gelatine che strutturano l'informazione italiana.

E tra tutti questi volti, questi personaggi di cui non riesco a ricordare mai i nomi, tutti questi che fino a poco tempo fa, intrappolati tra i miei occhi e le pagine di un giornale, non erano che adulti tristi e seri, ci sono loro: gli eroi.

Gli eroi che arrivano con la verità in bocca e te la leccano sulla faccia. Gli eroi che ascolti e leggi tutto un giorno per poi ricordarti, porca puttana, che sono morti un paio di mesi fa. Gli eroi che finché parlano ti senti quasi al sicuro, pensi che tutti dopo che hanno ascoltato si saranno illuminati, pensi che una piazza, un salotto di casa con la televisione accesa, possano contenere un popolo.

E poi pensi che siamo così tanto nella merda ad affidarci ad una sola voce che, oggettivamente, non riuscirà mai a dire tutto. Perché ogni uomo ha dentro una serie infinita di ragioni e di torti. Perché nessuno ha abbastanza fiato, in questa vita vera, da urlare alla gente di svegliarsi. Di convincersi. Di formarsi. Di interessarsi. Di lottare.

Allora vi chiedo di perdonare la sconclusionatezza. Vi chiedo di perdonare l'abbandono che sembra che stia operando quando a qualche domanda non sorrido nemmeno,
guardo l'orsa maggiore,
penso a Kenshiro.

E' solo una questione di tempo, il mio archivio si va formando, la mia mente si allunga in direzioni nuove o rinnovate da vecchie che erano.
Per quanto l'ammirazione sia comoda, piacevole, rassicurante, non possiamo fidarci e confidare in quegli eroi distanti che non sono che esseri umani. Possiamo solo seguire le loro strade per guardare i loro paesaggi fino a raggiungere un posto chiamato nostro.

E da questa precarietà dei modelli che nasce non uno sconforto, ma una speranza:
se non posso avere Kenshiro che mi salva, io sarò Kenshiro.

E poi di frasi altisonanti per concludere questo ragionamento ne esistono già tante.
Vi lascio solo con i miei due cents.

 

only morons and genius
would fight a losing battle
agaist the super ego.